L’origine del male

L’origine del male

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“Che fortuna per i governanti che gli uomini non sappiano pensare!” (Adolf  Hitler).

Fa molto comodo dividere il mondo in “Buoni” e “Cattivi” ed annoverarsi dalla parte dei “Buoni”! Il bambino tenderebbe naturalmente verso il male, laddove il genitore, l’educatore o il prete, non intervengano a reprimerne le cattive inclinazioni. Chi sostiene questa teoria adduce l’esempio di tutti i malvagi che si macchiano di crimini contro l’umanità.

Ma si tratta di individui realmente crudeli, o più banalmente di qualcos’altro?

Nel corso del processo a Gerusalemme contro Otto Adolf Eichmann, gerarca nazista catturato solo nel 1960, l’opinione pubblica aspettandosi di trovarsi al cospetto di un mostro, era desiderosa di riconoscere finalmente in qualcuno le nascoste e misteriose sembianze del Male, di scorgerne i chiari segnali.

Il mondo intero rimase deluso. I crimini contro l’umanità, perpetrati da Eichmann, come dalla maggior parte dei nazisti, non erano dovuti all’indole diabolica degli esecutori – ad una malvagità ben radicata nel loro animo – bensì alla totale inconsapevolezza di cosa significassero le proprie azioni.[1]

Nel corso del processo emerse tale terrificate verità: Eichmann apparve un uomo fisicamente grigio e dimesso, con l’aspetto di un burocrate, di uno zelante ragioniere, un mero esecutore di ordini.

Il gerarca fu giustamente condannato e tentare di comprendere l’origine dei suoi crimini non significa giustificarlo moralmente… è un invito a riflettere sul mistero della natura umana. Ma che Eichmann fosse tutt’altro fuorché un genio del Male, era l’aspetto più terrificante! Sarebbe stato meno minaccioso un mostro disumano, in quanto avrebbe reso difficile qualunque tipo di identificazione.

Con l’inizio del processo a Gerusalemme, anche lo psicologo statunitense Stanley Milgram si chiese se i gerarchi fossero tutti sadici o stessero semplicemente eseguendo degli ordini. E apportò il suo contributo scientifico, con un esperimento sul comportamento di fronte all’autorità, diventato un classico in psicologia sociale.[2]

Tre mesi dopo l’inizio del processo contro Eichmann, Milgram reclutò dietro ricompensa alcuni soggetti ignari della vera finalità dell’esperimento, a cui venne affidato il ruolo di “insegnanti”. A costoro fu ordinato di infliggere punizioni ad altri soggetti, gli “allievi”, mediante elettroshock sempre più dolorosi. In realtà, le scosse erano soltanto simulate e le “vittime” erano complici dello sperimentatore. Ma i risultati furono sconcertanti: nonostante gli “allievi” fingessero di provare molto dolore e supplicassero pietà agli “insegnanti”, costoro intensificavano le scosse per obbedire ciecamente agli ordini dello sperimentatore.

L’esperimento di Milgram evidenzia come di fronte ad un’autorità, persone insospettabili possano compiere azioni crudeli in conflitto con le proprie convinzioni etiche. Proposta da una “volontà superiore”, l’azione distruttiva appare non solo ragionevole, ma persino necessaria… l’individuo ridefinisce il significato della situazione, percependosi come “agente” sottoposto ad un’autorità e affrancandosi dalla responsabilità di qualunque tipo di azione.

Requisito necessario per dominare i propri simili, secondo Milgram, è ridurre gli altri al ruolo di esecutori d’ordini, un tipo di alienazione che può trasformare una persona normale in un criminale tanto feroce da compiere una strage.

Come mai tanti gerarchi tedeschi furono soggiogati da un tiranno?

Cosa aveva annullato in loro la possibilità di dissentire?

Riflettiamo su come furono allevati in Germania i bambini destinati a divenire biechi esecutori di ordini. Chiedendo loro di obbedire senza discutere, gli educatori ne soffocarono la creatività.

Rudolf Höss, comandante ad Auschwitz, parlando di se stesso bambino, riferisce con orgoglio: “In particolare non trascuravano mai di ricordarmi che era mio dovere obbedire immediatamente ai desideri e agli ordini dei genitori, dei maestri, dei preti ecc., insomma di tutti gli adulti (…) e che non mi era lecito rifiutare. (…) Questi fondamenti pedagogici sono diventati una parte di me stesso.”

Un’idea dell’atmosfera repressiva in cui furono allevati i criminali nazisti, nella terribile visione pedagogica della Germania del tempo, la offre Michael Haneke nel film “Il nastro bianco” (2009), in cui ambienta una storia emblematica in un villaggio agricolo, alla vigilia della prima guerra mondiale. La sceneggiatura sembra attingere ad alcuni passi della pedagogia nera, la Schwarze Pädagogik, così denominata da Katharina Rutschky[3]… il terrorismo psicologico subito da un bambino sospettato di essersi masturbato… le percosse da somministrare a distanza  ad un piccolo penitente, per la voglia sadica di amplificarne la sofferenza morale mediante l’angoscia dell’attesa.

“Quegli adolescenti impenetrabili, cinici, sprezzanti, vent’anni dopo saranno adulti” fa notare Natalia Aspesi nella sua recensione al film di Haneke  “(…) e la loro abitudine a ubbidire in silenzio a un potere autoritario, a trasformare la violenza subita in ferocia sui più deboli e i diversi, la diffidenza, la brutalità, l’ignoranza, l’invidia, che allora li legavano e separavano, avranno uno sbocco politico entusiasta e tragico.”

La repressione della libertà di pensiero e di espressione subita da intere generazioni ha preparato un terreno molto fertile all’avvento dei totalitarismi dell’Europa del XX secolo. Quel trattamento educativo ha aperto la strada al consenso popolare del nazismo.

I criminali nazisti persero fin da bambini i requisiti fondamentali della natura umana… la pedagogia nera” li programmò a divenire inconsapevoli strumenti di un folle.

Tra i danni della violenza educativa, la perdita della creatività e dell’autonomia del pensiero è il peggiore che possa capitare ad un bambino che imparando ad obbedire per paura, perde la possibilità di crescere come un uomo libero.

Su di lui si compie l’omicidio più efferato, quello della sua anima.

Immagine scaricata dal web.

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[1] Cfr. Hannah Arendt, “La banalità del male”, Feltrinelli, Milano, 2001 (1963).

[2] Stanley Milgram, “Obedience to Authority”, in “Experimental View”, Harpercollins, 1974.

[3] Katharina Rutschky, “Schwarze Pädagogik”, Ulstein, Berlin, 1977

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