L’anatema divino “partorirai con dolore”

L’anatema divino “partorirai con dolore”

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Da “ABITARE LA MENZOGNA” di Antonella Lia  http://www.stampalternativa.it/libri/978-88-6222-339-3/antonella-lia/abitare-la-menzogna.html

Nella Bibbia il dolore del parto è un anatema divino a cui la donna non può sottrarsi, “(…) partorirai con dolore”, una condanna che si ripropone come destino femminile universale.

La madre deve patire e subire passivamente.
Da millenni l’impronta della maledizione divina è radicata così profondamente nell’opinione e nell’etica popolare che tutti noi occidentali siamo da sempre abituati ad identificare l’esperienza del parto con il dolore.
Il tentativo di attenuare la sofferenza della maternità è stato in passato giudicato una sfida all’anatema biblico, alla stregua di un’eresia: nel XVI secolo l’ostetrica Agnes Simpson fu arsa sul rogo come eretica per aver somministrato ad una partoriente del cloroformio ai fini di alleviarne il travaglio.
Ma sembra che la maledizione divina si sia abbattuta solo sulle madri appartenenti alle società patriarcali: le donne allevate in comunità umane di tipo primitivo non conoscono il dolore del parto.
Nel diciottesimo secolo uno dei firmatari della Dichiarazione d’Indipendenza, il medico statunitense Benjamin Rush aveva osservato, stupito che, a differenza delle donne civilizzate che davano alla luce i loro figli con difficoltà e sofferenze, le native americane partorivano da sole: la donna si ritirava in una capanna senza nessuno ad assisterla e, dopo un travaglio rapido ed indolore, partoriva in posizione accovacciata. Nel giro di pochi giorni riprendeva le consuete occupazioni con il bambino in braccio. Il dottor Rush concludeva che per queste madri “la natura è l’unica levatrice”
L’anatema divino valeva quindi solo per le donne civilizzate?
E solo per le società patriarcali?
Il sistema delle società matriarcali non è il capovolgimento dell’apparato regolatore delle società patriarcali, con un potere femminile al comando al posto di quello maschile: le madri in tali contesti sono al centro della cultura senza dominare sugli altri membri del gruppo. Le culture matriarcali non conoscono il predominio, né lo sfruttamento di esseri viventi, umani o animali; sono strutture sociali non violente, basate sul rispetto della natura sull’economia del dono.
I valori materni espressi da tali culture non seguono la logica del profitto; il loro fine è rispondere ai bisogni degli individui e dei gruppi, basandosi sul rispetto reciproco e alimentando la vita naturale, sociale e culturale. Le società matriarcali sono fondate sul potere straordinario del dare – dare alla luce, dare nutrimento, dare tempo, dare cure e attenzione; in tali contesti l’essere madre, mothering, da mero fatto biologico diviene modello culturale. E’ uno stile di vita rivolto ai bisogni, molto più appropriato alla condizione umana di quanto non lo sia quello del patriarcato che orienta la identità umana in direzione del dominio, segue la logica del profitto ed associa alla sessualità i concetti di peccato e sacrificio.
In realtà il dolore del parto, causato dall’esistenza nella donna di contratture muscolari croniche, è collegato al rifiuto della propria corporeità, all’inquietudine causata da sensazioni ritenute sconvenienti: discende quindi indirettamente proprio dalla paura del peccato. L’educazione repressiva subita nel tempo porta la persona a irrigidire il corpo per difendersi dalle emozioni, ma il parto, col processo del travaglio, è come un’onda che la donna deve assecondare per favorire l’espulsione del feto.
E’ dunque la paura a irrigidire il corpo femminile, il timore del crescente dolore del travaglio a cui va a sommarsi un terrore antico: la minaccia di una sofferenza ineluttabile, confermata da narrazioni di altre madri. I racconti con particolari terrificanti dei propri parti sono finalizzati, nel profondo, a far pagare alla madre uno scotto per la propria vita sessuale.
Tutto il processo del parto è medicalizzato, la donna è passiva e in posizione orizzontale – più dignitosa e più adatta alle operazioni ostetriche – ma certamente non la più adatta a favorire un parto più confortevole. Con il parto medicalizzato si trascura l’importanza dell’evento come ri-connessione madre-bambino: un ambiente estraneo, una donna spaventata, un dolore amplificato da rigidità e paura, non permettono alla neo-mamma di godere appieno della gioia del bambino.
Il parto medicalizzato comporta, infine, un aspetto difficilmente considerato nella cultura occidentale, l’enorme sofferenza del nascituro, letteralmente strappato dall’utero, un ambiente dal tepore morbido, vellutato ed in penombra, al cui interno per nove mesi i suoni erano giunti ovattati. Bruscamente afferrato, il bambino è catapultato al freddo e subisce l’intrusione di luci abbaglianti e rumori molesti, fino alla violenza del taglio del cordone prima ancora che nei suoi polmoni possa essere avviata la funzione naturale del respiro.
Le ricerche effettuate nell’ambito della Psicoterapia Funzionale evidenziano risultati di grande interesse e di notevole validità nell’affrontare una gravidanza in condizioni fisiologicamente soddisfacenti, per un parto rapido, confortevole e poco doloroso per la mamma ed una nascita senza violenza per il neonato. Con il giusto tono muscolare ed in consapevolezza di se stessa, la madre può godere una maternità e un parto in contatto pieno con il suo bambino e con le proprie emozioni.

Nel corso del testo e in bibliografia, tutte le dovute citazioni.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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